In particolare, nel suo trattato "De Optimo Genere Oratorum" (Sulla miglior arte dell'oratoria), Cicerone sostiene che la traduzione deve essere considerata un'arte a sé stante e non solo un'attività tecnica o meccanica di trasferimento di parole da una lingua all'altra.
Cicerone credeva che l'arte della traduzione richiedesse una profonda comprensione della lingua originale, delle sue peculiarità linguistiche e culturali, nonché una padronanza della lingua di arrivo. Egli sottolinea l'importanza di preservare lo stile, la struttura e il contenuto dell'originale nella traduzione, e sottolinea l'importanza di avere un vasto bagaglio culturale per poter tradurre correttamente.
In altre opere, come "De Oratore" e "Brutus", Cicerone affronta anche la questione della fedeltà alla fonte nella traduzione, sostenendo che la traduzione dovrebbe essere il più possibile fedele all'originale, anche se ciò richiede una certa dose di adattamento per renderlo comprensibile al pubblico di arrivo.
In generale, Cicerone ha contribuito alla nascita della tradizione della traduzione letteraria nell'antica Roma, mettendo in luce l'importanza della traduzione come strumento per la diffusione della cultura e del sapere tra i popoli.
Tradurre è il più difficile di tutti gli esercizi letterari.
(De Optimo Genere Oratorum)
Tradurre non significa soltanto parlare con un'altra lingua, ma anche con un'altra cultura.
(Ad Atticum)
Tradurre è come guardare il sole attraverso un vetro colorato: non solo non si vede il sole, ma si vede anche il vetro.
(De Optimo Genere Oratorum)
La buona traduzione deve essere fedele al senso del testo originale, ma anche scorrevole e piacevole da leggere nella lingua di arrivo.
(De Optimo Genere Oratorum)
Tradurre richiede una grande conoscenza della lingua originale e della lingua di arrivo, nonché una grande sensibilità culturale e letteraria.
(De Finibus Bonorum et Malorum)