Il problema della traducibilità e dell'equivalenza di significato, discusso da Jakobson nel suo saggio del 1959 "Sulla teoria della traduzione", è stato centrale per gli studi sulla traduzione per molti decenni successivi. In particolare, Jakobson ha sollevato la questione di come sia possibile tradurre un testo da una lingua all'altra, preservando allo stesso tempo il significato e l'effetto comunicativo del testo originale.
Jakobson ha sostenuto che la traduzione non può essere considerata un'attività meccanica di sostituzione di parole o frasi da una lingua all'altra, poiché le parole e le frasi non hanno un significato univoco e trasferibile da una lingua all'altra. Invece, ha proposto che la traduzione debba essere considerata come un'attività di mediazione tra due sistemi linguistici e culturali diversi, in cui il traduttore deve cercare di riprodurre il significato del testo originale nella lingua di destinazione, tenendo conto del contesto culturale, sociale e storico in cui il testo è stato prodotto.
Jakobson ha anche sottolineato la necessità di distinguere tra due tipi di equivalenza nella traduzione: l'equivalenza semantica, che si riferisce alla corrispondenza di significato tra le parole e le frasi della lingua di origine e della lingua di destinazione, e l'equivalenza pragmatica, che si riferisce alla corrispondenza tra il contesto culturale e situazionale del testo originale e della traduzione.
Il problema della traducibilità e dell'equivalenza di significato sollevato da Jakobson ha avuto un impatto significativo sulla teoria e sulla pratica della traduzione, portando alla creazione di nuove metodologie di traduzione, alla revisione delle strategie di traduzione e alla riflessione critica sul ruolo del traduttore come mediatore culturale e linguistico.